Via libera al risarcimento da pratiche aggressive nel recupero crediti. Deve essere riconosciuto il danno non patrimoniale al debitore “braccato” dalla società incaricata dalla banca affinché saldi il suo debito relativo a un prestito ottenuto dall’istituto: troppo insistenti le telefonate e i messaggi al lavoro e a casa dei parenti, scatta il ristoro per aver dovuto fornire imbarazzanti spiegazioni al datore e ai parenti su questioni molto private. E ciò benché all’atto di stipulare il contratto di finanziamento il cliente autorizza la banca al trattamento dei suoi dati personali, anche mediante la trasmissione delle informazioni all’azienda delegata al recupero crediti. È quanto emerge dalla sentenza 883/12, pubblicata dal tribunale di Chieti (giudice monocratico Camillo Romandini).
Accolto il ricorso del consumatore. La banca e la società finanziaria sono condannate a versare ciascuna 10 mila euro al cliente, con la seconda che deve essere tenuta indenne dalla prima: ha agito nell’ambito del rapporto contrattuale che la lega all’istituto di credito e ha comunque rispettato le indicazioni. La colpa, tuttavia, è di tutt’e due. Sta sicuramente alla banca vigilare sulla riservatezza anche nel recupero dei suoi crediti. Ma la finanziaria incaricata avrebbe dovuto verificare di poter utilizzare i numeri di telefono e le altre informazioni utili alla sua opera di moral suasion per spingere il debitore a saldare le sue debenze. Fatto sta che il cliente si ritrova bersagliato di telefonate, perfino a casa dell’anziana nonna e del fratello. E a tutti deve raccontare del prestito da restituire alla banca, anche se dal contratto di finanziamento firmato non emerge che l’interessato abbia fornito all’istituto tutti i recapiti adoperati per rintracciarlo dall’addetta al recupero crediti (che tra l’altro non spende il nome dell’azienda). Risultato: paga la banca e scatta pure la segnalazione al Garante privacy.