Riconosciuti i danni morali ed esistenziali se dall’articolo giornalistico è possibile risalire all’identità dei protagonisti di un caso di cronaca anche se non vengono specificati i loro nomi: affinché il pubblico identifichi il soggetto in questione, infatti, risultano sufficienti alcuni dati sensibili riportati nel servizio.
Lo afferma la Cassazione con la sentenza 1608/14 del 27 gennaio, depositata dalla terza sezione civile. Ottengono, dunque, il risarcimento dei danni morali ed esistenziali una madre e il figlio, le cui vicende venivano riportate da una serie di articoli. La pubblicazione del primo intervento aveva innescato la divulgazione di altre notizie, riprese, poi, anche da altre testate a tal punto da fare diventare la vicenda in poco tempo un caso mediatico. I nomi dei protagonisti non venivano indicati, ma gli articoli e gli interventi dell’editore della testata riportavano alcuni particolari che avevano permesso al pubblico di capire di chi si trattasse.
Per il Tribunale di Bolzano, l’editore e il giornalista avevano leso il diritto di riservatezza; era giusto, quindi, che risarcissero i danni. Non basta, ai ricorrenti, appellarsi alle norme a tutela della privacy e a quelle del codice deontologico dei giornalisti relative al trattamento dei dati personali che fanno riferimento «all’identificabilità dei soggetti, cioè alla possibilità che i lettori possano identificarli pur in assenza dell’indicazione delle generalità, rimanendo irrilevante la circostanza che la notizia possa stimolare successive indagini di terzi».
La tutela, ad avviso dei ricorrenti, si applica «a soggetti identificati o identificabili e non si applicano a soggetti a cui i dati e le informazioni raccolti e diffusi non sono riconducibili». Ma dalla sentenza impugnata risulta che già il primo servizio giornalistico, «pur non indicando le generalità, conteneva tutta una serie di particolari individualizzanti certamente idonei a consentire ad un vasto pubblico di comprendere con immediato effetto di quale cameriera si trattava».
La Cassazione precisa che «l’individuabilità della persona offesa o di cui sono stati resi pubblici dati sensibili non ne postula l’esplicita indicazione del nominativo, essendo sufficiente che essa possa venire individuata anche per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto tale individuazione avvenga nell’ambito di un ristretto gruppo di persone». La sentenza del Tribunale di Bolzano risulta conforme a questo principio di diritto. Il ricorso viene respinto e i ricorrenti condannati a pagare le spese di giudizio.