
Una delle situazioni più spiacevoli per il lavoratore, probabilmente la più temuta, è quella di ricevere una lettera con cui gli viene comunicato di essere stato licenziato.
Il nostro ordinamento prevede una specifica normativa sul licenziamento, introdotta principalmente con lo scopo di tutelare il prestatore e scongiurare possibili abusi da parte del datore di lavoro, il quale può interrompere il rapporto solo nei casi ammessi dalla legge, a pena di illegittimità del licenziamento.
Tuttavia, recenti interventi legislativi hanno peggiorato la posizione del lavoratore, perché hanno reso il rapporto di lavoro subordinato non più stabile e sicuro come in passato.
Per tali motivi, oggigiorno, a fronte di un licenziamento (sia esso per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo o soggettivo oppure, ancora, discriminatorio), è sempre conveniente rivolgersi a un avvocato del lavoro esperto in materia, in grado di garantire un’assistenza completa e qualificata.
Attraverso quest’articolo, saranno illustrate le ragioni per le quali è opportuno che il lavoratore, soprattutto in caso di licenziamento, si rivolga all’avvocato specializzato nell’ambito del diritto del lavoro.
Indice
1) l’avvocato del lavoro eroga un servizio efficace e minuzioso
L’avvocato del lavoro offre un’assistenza dettagliata e scrupolosa in favore del lavoratore vittima di licenziamento, curando ogni aspetto, anche quello che apparentemente può sembrare di secondaria importanza;
In concreto, l’avvocato del lavoro, per prima cosa, controlla se la lettera di licenziamento sia affetta da eventuali vizi procedurali e, in seguito, verifica la legittimità dei motivi addotti dal datore per giustificare l’interruzione del rapporto di lavoro.
Il professionista può accertare, inoltre, la presenza di possibili violazioni che possano comportare una denuncia del datore all’ispettorato del lavoro (es. dichiarata una posizione all’interno dell’azienda differente da quella effettiva).
Nel caso in cui siano riscontrate trasgressioni della normativa posta a tutela del lavoratore, l’avvocato del lavoro redigerà un’accurata impugnativa intimando al datore di lavoro il pagamento delle indennità dovute per legge.
Generalmente accade che il datore di lavoro, ricevuta l’impugnazione del licenziamento, si metterà in contatto con il legale del dipendente per tentare una risoluzione transattiva della controversia.
Qualora non si riesca a raggiungere un accordo bonario, l’avvocato depositerà un ricorso presso il Tribunale del lavoro competente per conseguire la piena tutela degli interessi del lavoratore.
Nell’ipotesi di sentenza favorevole al lavoratore, se il datore non provvede spontaneamente a corrispondere le somme dovute, L’avvocato si occuperà della fase esecutiva, pignorando i beni del debitore per il pieno soddisfacimento del credito vantato dal suo cliente.
È evidente, quindi, come l’avvocato del lavoro seguendo la procedura appena illustrata, miri a conseguire il miglior risultato per il suo cliente.
2) l’avvocato del lavoro presta un’attività specializzata
In ogni ambito professionale, compreso quello legale, è indispensabile individuare un professionista che tratti esclusivamente (o almeno prevalentemente) una specifica materia, che sia in grado, dunque, di offrire un’assistenza qualificata.
La specializzazione, in genere, garantisce un servizio efficiente, rapido, e un abbattimento dei costi; per tale ragione, l’avvocato del lavoro, avendo maturato un’elevata competenza e una solida esperienza nel settore giuslavoristico, necessita di un tempo molto limitato per la risoluzione delle questioni giuridiche sottoposte, oltre ad essere in grado di fornire al cliente i giusti consigli a seconda dei diversi scenari che possono man mano presentarsi.
È conveniente, dunque, rivolgersi a un avvocato del lavoro piuttosto che a un sindacalista o a un ufficio vertenze perché questi ultimi non sono muniti delle competenze tecniche specializzate, indispensabili per garantire al lavoratore la piena tutela dei suoi interessi.
3) l’avvocato del lavoro è in grado di fronteggiare i tempi tassativi previsti per l’impugnazione del licenziamento
In generale, la tempistica nelle controversie in materia di lavoro è molto importante, perché se da un lato il lavoratore ha sempre la facoltà di opporsi alla volontà del suo datore di lavoro, dall’altro, però, è tenuto a farlo entro termini tassativi; per questa ragione è indispensabile rivolgersi a un avvocato esperto in questo delicato settore, capace di districarsi tra le incalzanti procedure che consentono di salvaguardare i diritti del dipendente.
Ebbene, anche i termini previsti per l’impugnazione del licenziamento sono perentori, per cui se il dipendente li lascia inutilmente scadere, non potrà più contestare la decisione del suo datore. In particolare, è previsto che il licenziamento debba essere impugnato, per iscritto, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione.
Tuttavia, ciò non è sufficiente: l’impugnazione, infatti, diviene inefficace se, entro i successivi ottanta giorni, il lavoratore non si rivolge al tribunale o non promuove un tentativo stragiudiziale di conciliazione o arbitrato; se il datore di lavoro si rifiuta di perseguire la via stragiudiziale o non intende raggiunge un accordo, il legale del dipendente dovrà depositare il ricorso nella cancelleria del giudice del lavoro entro i successivi 60 giorni che decorrono dal rifiuto o dal mancato accordo.
Ricordiamo, infine, che questa procedura così stringente non è prevista solo per la contestazione del licenziamento, ma è obbligatoria anche per molte altre questioni che scaturiscono sempre dal rapporto di lavoro dipendente.
4) Il lavoratore e non è tenuto al pagamento delle spese di giudizio in caso di soccombenza
Grazie alla recente pronuncia della Corte Costituzionale, il lavoratore che intende rivolgersi al giudice per rivendicare i suoi diritti non rischia più di essere condannato al pagamento delle spese legali, anche se la decisione sia a lui sfavorevole.
L’intervento del giudice delle leggi è risultato sdoveroso poiché, in seguito alla riforma del 2014, si era registrata una forte contrazione delle controversie in materia di lavoro: un dato certamente non generato da un’improvvisa riduzione delle violazioni dei diritti dei dipendenti, ma dovuto alla formulazione dell’art. 92 c.p.c., oggetto di detta riforma, il quale consentiva al giudice di condannare il lavoratore al pagamento delle spese di giudizio nel caso di soccombenza.
Era evidente, quindi, che la maggior parte dei lavoratori dipendenti licenziati, dato l’esito incerto della causa, non poteva permettersi di sostenere anche l’ulteriore pagamento delle spese legali.
In altri termini, prima della pronuncia in esame, il lavoratore che impugnava il licenziamento dinanzi al giudice, rischiava non solo di rimanere senza stipendio, ma di dover pagare, in aggiunta, la parcella del legale del suo datore di lavoro, oltre a quella del suo avvocato.
Per questo motivo, la Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità del disposto contenuto al II comma dell’art. 92 c.p.c., ha ripristinato un importante principio di equità, garantendo così ad ogni dipendente la possibilità di far valere in giudizio i propri diritti senza correre il rischio di dover sostenere integralmente il pagamento delle spese di giudizio.