
Particolare importanza riveste la sentenza n. 13868/2018 con cui la Suprema Corte ha stabilito che l’usufrutto generale disposto con testamento in favore del coniuge non ne esclude la qualità di erede; secondo i giudici di legittimità, è sempre necessario ricercare la volontà del testatore attraverso la lettura di tutte le disposizioni che compongono il testamento, solo così è possibile ricondurre correttamente l’usufrutto generale al legato o all’eredità.
La vicenda sottoposta al vaglio degli ermellini trae origine dalla domanda giudiziale con cui la figlia del defunto ha convenuto in giudizio gli altri due fratelli per richiedere la riduzione delle loro quote, ritenendo lesa la propria legittima. I fratelli si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto della domanda e l’imputazione all’eredità in via riconvenzionale di altri beni e liberalità. Inoltre, in fase di precisazione, emergevano contestazioni sulla qualificazione del lascito della madre, in favore della quale il de cuius, con testamento pubblico, aveva disposto l’usufrutto generale vitalizio del suo patrimonio mobiliare e immobiliare, di tutti i macchinari e attrezzi agricoli, trattori, motocoltivatori ed eventuale patrimonio zootecnico; secondo la figlia, il lascito della madre, nel frattempo deceduta, doveva considerarsi legato in sostituzione di legittima e, dunque, i tre fratelli dovevano essere considerati come unici eredi.
Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che l’usufrutto generale fosse da considerarsi istituzione di erede. La figlia impugnava la decisione di primo grado, e la Corte d’Appello riformava la decisione del Giudice a quo, sostenendo che l’usufrutto generale alla moglie si configurava come legato in sostituzione di legittima, conformemente all’orientamento secondo cui costituisce legato il lascito avente ad oggetto l’usufrutto, generale o pro quota, dell’asse, non subentrando l’usufruttuario in rapporti qualitativamente eguali a quelli del defunto e derivando la sua responsabilità per i debiti dal meccanismo dell’art. 1010 cod. civ. e non dalla qualità di erede…”.
I due fratelli ricorrevano in Cassazione censurando le statuizioni della Corte d’Appello.
La Cassazione, come precisato dalla sentenza della Corte territoriale, riconosce che “In qualche pronuncia l’attribuzione testamentaria di usufrutto generale fosse considerata come istituzione di erede, mentre in qualche altra fosse esclusa la successione in universum ius; cosicché – aggiunge la Cassazione – la Corte di merito ha preferito accedere all’orientamento secondo cui costituirebbe legato il lascito avente ad oggetto l’usufrutto, generale o pro quota, dell’asse, non subentrando l’usufruttuario in rapporti qualitativamente eguali a quelli del defunto e derivando la sua responsabilità per i debiti dal meccanismo dell’art. 1010 cod. civ. e non dalla qualità di erede”; secondo la Suprema Corte, tale principio è valido in assenza di disposizioni testamentarie idonee “a far venir meno l’universalità del lascito (o ad attribuire a esso la natura pro quota) e, quindi, a far derivare la qualità di erede”; tuttavia, nel caso di specie, la disposizione che prevede l’attribuzione in favore della moglie dei beni aziendali elencati nel testamento, costituisce clausola idonea “Da sé sola a condurre all’attribuzione della qualità di erede…” o come il fatto che nel testamento non vi sia alcun riferimento, a differenza degli immobili, alla volontà del de cuius di dividere i beni mobili diversi da quelli aziendali.
In conclusione, la Cassazione, respingendo le conclusioni a cui era pervenuta la Corte d’Appello per i motivi innanzi esposti, ha stabilito che è compito del giudice del rinvio fornire la corretta interpretazione del testamento, precisando che: “Quanto rilevato già di per sé consente di affermare la violazione dei criteri ermeneutici e, indirettamente, come già premesso, della regola distintiva tra disposizioni di ultima volontà a titolo particolare e universale (art. 588 cod. civ.), ancorata al criterio oggettivo del contenuto dell’atto e delle modalità di attribuzione operata dal testatore e a quello soggettivo dell’intenzione o non intenzione di attribuire beni determinati come quota dell’universalità del patrimonio”.
Secondo la Suprema Corte, il suddetto principio, avrebbe dovuto essere applicato dal giudice del rinvio.