
Assume particolare rilevanza l’ordinanza n. 7814 del 29 marzo 2018 resa dalla Corte di Cassazione in tema di responsabilità della Pubblica Amministrazione e della struttura sanitaria per danni discendenti da emotrasfusioni.
La vicenda trae origine dall’azione spiegata da una donna nei confronti del Ministero della Salute, della Gestione Liquidatoria dell’USL nonché della Regione Lombardia, al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla contrazione del virus HIV a seguito di trasfusioni di sangue avvenute durante la degenza in ospedale presso la Divisione Ostetricia, riscontrando la positività nel 1992. Il Tribunale rigettava la domanda e la Corte d’appello di Milano confermava la decisione del giudice a quo. Cosicché, la donna proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza del giudice di secondo grado.
La Suprema Corte, in primo luogo, ha ribadito – richiamando sul punto il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che in capo al Ministero della Salute grava l’obbligo di esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine anche alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, e il Ministero risponde per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi ex art. 2043 c.c.; obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo discendono in capo al Ministero da una serie di disposizioni e atti normativi, che sono stati compiutamente elencati dalla Cassazione nell’arresto in esame.
Gli Ermellini hanno evidenziato come già a partire dalla fine degli anni ‘60 e inizi anni ’70 esistevano obblighi normativi in relazione ai controlli tesi a prevenire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto e dinanzi a tali obblighi – aggiunge la Suprema Corte – la discrezionalità amministrativa «si arresta e non può essere invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi».
La Cassazione ha osservato, poi, come il Ministero della Salute risponda “anche per il contagio degli altri due virus” già “a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B”, trattandosi non già di “eventi autonomi e diversi” ma solamente di “forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto”, “le Sezioni Unite non hanno certamente inteso limitare la rilevanza del fenomeno e la relativa responsabilità alla “data di conoscenza dell’epatite B”.
Con riferimento alla posizione della struttura sanitaria, i giudici di legittimità hanno affermato che l’ente è direttamente responsabile quando l’evento dannoso debba essere ricondotto, come nella specie, alla condotta colposa posta in essere dal medico, della cui attività essa si è comunque avvalsa per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale.
La Corte ha sottolineato, altresì, che anche nell’epoca antecedente l’entrata in vigore del D.L. n. 443 del 1987, art. 5, comma 7, (conv., con modif., nella L. n. 531 del 1987) – che ha posto l’obbligo per le USL di compiere preventivi controlli del sangue da destinare alle trasfusioni al fine di accertare l’assenza del virus HIV – l’attività di trasfusione era connotata da obiettiva pericolosità, sicché l’inosservanza della normativa innanzi richiamata, del protocollo e delle linee guida delle leges artis, emanati allo scopo di evitare i rischi specifici che nella fattispecie si sono verificati e perciò prevedibili, configurava grave inadempimento contrattuale del medico per condotta commissiva ed omissiva, imputabile anche alla struttura sanitaria ai sensi dell’art. 1228 c.c..
Infine, La Cassazione ha ritenuto che la Corte di merito abbia disatteso i menzionati principi; ed invero, la Corte territoriale aveva ritenuto che il Ministero avesse adempiuto alla sua principale funzione di tutela della sanità pubblica, in considerazione dell’epoca in cui si è verificato il contagio, limitandosi ad assolvere attività di normazione, e aveva poi escluso il nesso di causalità poiché, in sede di accertamento, non era stato possibile verificare quali pratiche l’ente preposto al prelievo del sangue e al confezionamento delle sacche avesse seguito per processare a quel tempo gli emoderivati e con quali modalità fossero stati effettuati i controlli sui donatori. La Corte d’appello, inoltre, aveva disatteso i succitati principi anche escludendo la responsabilità dell’ente ospedaliero in virtù della considerazione per cui gli emoderivati non provenivano dall’ospedale stesso, ma erano stati forniti dall’ente preposto al prelievo del sangue e al confezionamento delle sacche, quindi solo in capo a quest’ultimo sarebbe esistito l’obbligo di “attenersi con il massimo scrupolo a quanto previsto dalle più avanzate conoscenze mediche in merito alla prevenzione delle complicanze infettive epatotrope per l’utilizzatore finale dell’emoderivato”.