LA PRESCRIZIONE DEL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO DA TRASFUSIONE DI SANGUE INFETTO

Con la sentenza n. 17421/19 del 28 giugno 2019, la Suprema Corte è intervenuta nuovamente in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da trasfusione di sangue infetto, enunciando l’importante principio secondo cui la prova presuntiva sulla conoscenza o conoscibilità, da parte della vittima, della malattia e delle sue cause, non può mai ridursi ad una mera congettura od illazione.

Il caso

La vicenda rimessa all’esame dei giudici di legittimità trae spunto dall’azione esercitata da donna nei confronti del Ministero della Salute per ottenere il ristoro dei danni derivanti dall’epatite contratta a causa di una trasfusione di sangue infetto.

Il giudice di prime cure dichiarava la prescrizione del diritto al risarcimento; la pronuncia del giudice a quoveniva confermata anche dalla Corte di Appello.

L’appellante soccombente impugnava la sentenza emessa dalla Corte di merito con ricorso per cassazione.

 Il principio della Suprema Corte

Gli Ermellini hanno preliminarmente ribadito che il diritto al risarcimento danni trasfusione sangue infetto “inizia a prescriversi dal momento in cui il danneggiato, con la diligenza esigibile non da lui, ma dall’uomo medio, possa avvedersi sia di essere malato, sia che la causa della malattia fu la condotta illecita di un terzo, questo nel rispetto di tre regole applicative, tutte e tre già stabilite da questa Corte.

In base alla prima regola “quando la persona contagiata da emotrasfusione presenti la domanda amministrativa di concessione dell’indennizzo previsto dalla L. 25 febbraio 1992, n. 210, dimostra per ciò solo di essere consapevole sia della sua malattia, sia della causa di essa”. La seconda regola prevede che, “una volta dimostrata dalla vittima la data di presentazione della domanda amministrativa di concessione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, è ribaltato sulla parte che si oppone alla domanda di risarcimento l’onere di provare che il danneggiato avesse acquisito la consapevolezza dell’esistenza del contagio, e della sua derivazione causale dalla trasfusione, già prima dell’inoltro della suddetta domanda”, prova che “potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici, alle condizioni e nei limiti stabiliti dagli artt. 2727 e 2729 c.c.”.

Infine, secondo la terza regola “la prova presuntiva della previa conoscenza o conoscibilità, in capo alla vittima, della malattia e delle sue cause, non può mai ridursi ad una mera congettura od illazione. La prova presuntiva, infatti, è una deduzione logica; si deve fondare su fatti certi; si deve dedurre da questi sulla base di massime d’esperienza o dell’id quod plerumque accidit”.

Ebbene, a parere dei giudici di legittimità la Corte di appello non avevano fatto corretta applicazione tanto della seconda quanto della terza regola, avendo la Corte territoriale dedotto che la donna avesse cognizione della patologia o avrebbe potuto facilmente acquisirla già prima della domanda di indennizzo ex lege n. 210/92 su una serie di circostanze, primo fra tutti il fatto che la donna iniziò a curarsi subito dopo aver conseguito i primi risultati diagnosti che rivelarono la presenza della patologia epatica e che in tale sede il sanitari le avrebbero verosimilmente fornito ulteriori informazioni concernenti l’origine della malattia.

Ciò posto, secondo i giudici della Cassazione, la Corte d’appello aveva violato il divieto di ricorso alla “praesumptio de praesumpto”. A tal proposito, i giudici di legittimità hanno preliminarmente rammentato che le presunzioni semplici di cui all’art. 2727 c.c., sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, conseguentemente, gli elementi che costituiscono la premessa del ragionamento presuntivo devono avere il carattere della certezza e della concretezza. Non è possibile, dunque, considerare come “fatto noto” una mera presunzione, da cui dedurre un’altra presunzione.

Orbene, a parere della Corte di Cassazione, la sentenza oggetto di gravame non appariva rispettosa di tale principio, nella parte in cui dal fatto noto che la odierna ricorrente avesse scoperto la malattia, ha desunto il fatto ignorato che i sanitari “probabilmente” l’avevano informata sulla eziogenesi della malattia; e ricavando da tale plausibile circostanza che l’informazione fu completa, esaustiva e comprensibile.

In virtù di tali argomentazioni, i giudici di legittimità hanno cassato la sentenza gravata con rinvio alla Corte di Appello, la quale sarà chiamata a decidere alla luce dei sopra enunciati principi.