
Mediante la recentissima ordinanza n. 3694 del 12.2.2021, la Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire il principio secondo cui: “può ravvisarsi la comoda divisibilità della massa non solo quando sia possibile una ripartizione dell’immobile comune in tante parti corrispondenti al numero ed alle quote dei condividenti, ma anche ove il frazionamento minore venga attuato, in corrispondenza ai diritti dei condividenti, formandosi, per quelli fra essi che ne facciano richiesta, un’unica porzione, che non muti fisionomia sul piano funzionale ed economico e che consenta la sua propria e normale utilizzazione senza spese rilevanti ed imposizione di vincoli a carico di altra porzione. Non osta a tale soluzione, che preveda l’attribuzione di una quota al gruppo di condividenti che ne abbia fatto richiesta, la circostanza che la detta quota non sia, a sua volta, comodamente divisibile fra i condividenti, ai quali sia congiuntamente attribuita“.
Indice
Il casus decisus
La questione rimessa al vaglio della Suprema Corte origina dall’azione giudiziale proposta da i coniugi Ma.Ni. e M.R., i quali convenivano in giudizio S.C. e S.I.G. dinanzi al Tribunale al fine di procedere alla divisione degli immobili, meglio descritti in citazione, dei quali gli attori erano divenuti comproprietari in virtù dell’atto per notar D.C.B. del 13 ottobre 2000, con condanna delle convenute, poiché nel godimento esclusivo dei beni, al pagamento di un’indennità di occupazione.
Si costituivano le convenute che contestavano di avere il godimento esclusivo, chiedendo procedersi alla divisione. Espletata CTU, il Tribunale, ritenuta la non comoda divisibilità dei beni, li attribuiva per l’intero agli attori con condanna al versamento dell’eccedenza in favore delle altre condividenti.
Avverso tale decisione proponevano appello le convenute, deducendo l’erronea applicazione dell’art. 720 c.c., evidenziando che anche le appellanti erano tra loro in comunione e che pertanto potesse procedersi alla divisione attribuendo loro, congiuntamente una quota in natura, corrispondente al valore cumulato delle loro quote ideali.
La Corte d’Appello di Bari, ritenuta condivisibile la richiesta delle appellanti, accoglieva il gravame, ed in riforma della sentenza impugnata, ha disposto la divisione dei beni come meglio precisato in motivazione, e con i conguagli ivi indicati.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso Ma.Ni. e M.R. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.
S.C. e S.I.G. resistono con controricorso.
La motivazione della Suprema Corte
Ai fini che qui interessano, è opportuno soffermarsi sulla disamina del secondo motivo di gravame con cui le ricorrente hanno contestato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1116 e 720 c.c., in quanto non ha considerato che, come si ricava dall’atto di acquisto dei ricorrenti, gli stessi vantavano sul fabbricato adibito ad abitazione sito nel Comune di (OMISSIS), posto al piano terra con accesso da (OMISSIS) una quota maggiore di quella vantata dalle controparti, cosìcche la corretta applicazione dell’art. 720 c.c. avrebbe dovuto indurre a privilegiare la richiesta di attribuzione dei ricorrenti, in quanto maggiori quotisti.
Gli Ermellini hanno ritenuto di poter esaminare congiuntamente i motivi, stante la loro connessione, dichiarandone però l’infondatezza.
A parere dei Giudici di legittimità, i motivi di gravame risultano inficiati dall’erroneo convincimento che il giudice di appello, nel riformare la sentenza del Tribunale, abbia in realtà dato seguito ad una richiesta di attribuzione tardivamente avanzata dalle convenute ai sensi dell’art. 720 c.c., ma sul presupposto, che era alla base della decisione di primo grado, della non comoda divisibilità della massa. Effettivamente, la giurisprudenza di questa Corte – evidenzia la Suprema Corte – preclude alla parte che in primo grado si sia opposta alla divisione, di avanzare per la prima volta in appello la richiesta di attribuzione che invece era stata formulata da altro condividente (Cass. n. 10624/2010; Cass. n. 10856/2016); tuttavia, nel caso specie, la sentenza di seconde cure, lungi dal ribaltare la richiesta decisione in merito all’attribuzione dei bene non comodamente divisibile, preferendo ai ricorrenti le appellanti, è in realtà pervenuta alla diversa soluzione di ritenere possibile la divisione in natura dei beni comuni, tenuto conto della richiesta avanzata dalle convenute di rimanere in comunione tra di loro, ottenendo quindi un’unica quota, destinata però a restare comune tra le medesime.
Ed invero – prosegue la Cassazione – mentre la decisione del Tribunale si fondava sul riscontro della non comoda divisibilità in natura della massa, sul presupposto che fossero tre le quote da formare, viceversa la Corte d’Appello, stante la dichiarata disponibilità delle appellanti a restare in comunione, ha ritenuto invece fattibile, come anche suggerito dall’ausiliario d’ufficio, una divisione in natura con la formazione di due quote, di cui una da assegnare in comunione agli attori e l’altra da attribuire, sempre in comunione, alle convenute.
Trattasi, peraltro, di esito che risulta imposto proprio dalla disciplina generale in tema di divisione, che impone al giudice di dover perseguire in via prioritaria il risultato della divisione in natura, posto che la regola dettata dall’art. 720 c.c. interviene solo nel caso in cui il primo risultato non sia conseguibile, individuando quindi come soluzioni alternative:
- (dapprima) la richiesta di attribuzione al condividente che ne faccia richiesta;
- ed infine, ove risulti mancante una richiesta di tal fatta, la vendita del bene, vista appunto come extrema ratio alla quale ricorrere solo nel caso in cui sia impedita la possibilità di mantenere il bene nella sfera degli originari comunisti.
“Peraltro – rilevano i giudici di legittimità – atteso che la comunione insorta tra gli attori e le convenute scaturisce, come detto in ricorso, da un unico atto di acquisto che ha visto i ricorrenti divenire comproprietari con il medesimo titolo di alcuni beni, sebbene con quote diverse in relazione ai vari immobili interessati dall’acquisto, la natura unitaria della massa comune impone che anche la divisione debba essere unitaria e che ben possa disporsi la divisione in natura tra i condividenti secondo il criterio ispiratore del frazionamento in natura, sebbene all’esito della stessa non sia possibile assicurare ad ognuno dei condividenti una porzione dei beni dei quali pur erano comproprietari”.
Il principio della Cassazione
Durante l’esposizione del suo articolato iter logico- argomentativo, la Suprema Corte ha poi enunciato il principio secondo cui: “.. ferma restando la necessità che l’attribuzione congiunta di una quota, in luogo di quelle spettanti individualmente ai condividenti, sia conseguenza di una richiesta delle parti stesse (cfr. Cass. n. 489/1966; Cass. n. 4984/1978; Cass. n. 2450/1976, che ribadisce come tale modalità di scioglimento della comunione non contrasta con principi assoluti ed inderogabili, essendo rimesso all’accordo ed alla volontà delle parti), va richiamato il principio secondo cui (Cass. n. 2117/1966), ai fini della comoda divisibilità, non ci si può basare esclusivamente sulla natura e sulla destinazione degli immobili, ma – e soprattutto – bisogna tener conto dell’intera massa dei beni da dividere, in rapporto al numero delle quote e dei condividenti. In particolare, quando l’asse ereditario comprende un solo immobile, questo sarà comodamente divisibile se ciascuno dei coeredi potrà averne una parte, anche se di valore inferiore alla quota di sua spettanza salvo, in questa ipotesi, ad attuare il pareggio con l’operazione di conguaglio, ovvero, se, pur non essendo possibile frazionare comodamente l’immobile in tante parti corrispondenti al numero e alle quote dei condividenti, alcuni di questi richiedano congiuntamente la formazione di una porzione unica, corrispondente all’ammontare complessivo delle loro quote, giacché, in questo caso, la divisione è resa possibile dal minore frazionamento dell’immobile“.
Ed ancora, a parere della Cassazione “La possibilità che la divisione possa essere realizzata anche con la formazione di una o più quote destinate a rimanere in comunione tra alcuni degli originari condividenti che ne abbiano fatto richiesta, trova poi conferma in Cass. n. 8599/2004, che ha appunto ritenuto che l’attribuzione congiuntiva di beni ereditari non dà luogo al cosiddetto stralcio di quota o ad una divisione parziale, ma produce lo scioglimento della comunione ereditaria, con la conseguente inconfigurabilità del diritto di prelazione legale ex art. 732 c.c., che imprescindibilmente la presuppone, ed applicabilità viceversa – ai beni congiuntamente attribuiti – della disciplina propria della comunione ordinaria“.
Precisa la Corte: “Conforta la correttezza, anche dal punto di vista processuale, della soluzione del giudice di appello, quanto affermato da Cass. n. 2630/1990, che ha precisato che, proposta congiuntamente da più coeredi nei confronti di uno di essi domanda di divisione della comunione ereditaria, non costituisce mutatio libelli la richiesta avanzata in corso di giudizio dagli stessi attori, sul presupposto dell’accertata indivisibilità dei beni e delle conseguenze impossibilità del sorteggio, di rimanere in comunione tra loro con conseguente stralcio della sola quota spettante al coerede convenuto, costituendo detta istanza una mera modalità di realizzazione della divisione ex art. 720 c.c. e, processualmente, una specificazione della domanda contenuta in citazione, come tale non richiedente una speciale procura – ma proponibile anche in appello senza necessità di accettazione della controparte”.
Deve ritenersi – concludono gli Ermellini – “che anche la richiesta avanzata per la prima volta in appello dalle contro ricorrenti, di rimanere in comunione, al fine di scongiurare gli effetti legali derivanti dalla non comoda divisibilità della massa comune, non integra una domanda nuova, rivelandosi una mera sollecitazione al giudice a rinnovare il giudizio sulla divisibilità in natura dei beni, alla luce del mutato assetto del numero e della consistenza delle quote da comporre, ed in vista dell’obiettivo tendenziale di assicurare con la divisione una distribuzione in natura dei beni tra i condividenti, scongiurando che i diritti di alcuni di essi vengano tacitati solo in denaro, come avverrebbe nel caso in, sul presupposto della non comoda divisibilità si procedesse all’attribuzione in esclusiva ad uno solo di essi ovvero alla vendita a terzi”.
Sulla scorta delle suesposte ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.