
Con la recente sentenza n. 9468 del 04/4/2019, la Suprema Corte ha stabilito in quali ipotesi il licenziamento possa essere qualificato come ritorsivo. In particolare, i giudici di legittimità hanno precisato chequalora il lavoratore impugni il proprio licenziamento deducendone la nullità per il suo carattere ritorsivo, il motivo (legittimo) posto dal datore a fondamento del licenziamento deve risultare non dimostrato in giudizio, atteso che la nullità del licenziamento per motivo illecito di cui all’art. 1345 c.c., richiede che questo abbia carattere determinante.
Il caso
La questione poste all’attenzione della Corte di Cassazione prende le mosse da un licenziamento intimato nei confronti di un dipendente al termine di un periodo di prova durato quattro settimane; il lavoratore contestava il licenziamento, ritenendo fosse illegittimo, e il datore di lavoro, dopo essersi avveduto della svista, revocava il licenziamento, per poi intimarlo nuovamente a distanza di pochi giorni “per riorganizzazione aziendale e soppressione della figura che era stata ricoperta dal dipendente”.
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda del lavoratore, ravvisando il carattere ritorsivo del licenziamento.
La società soccombente proponeva appello avverso la sentenza del primo giudice, che veniva accolto dalla Corte di merito.
La decisione dei giudici di legittimità
La Suprema Corte, nel cassare la sentenza, ha richiamato la più recente e consolidata giurisprudenza di legittimità in materia; nello specifico gli Ermellina ha precisato che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la sua legittimità, che le addotte ragioni relative all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, determinino causalmente un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità; in caso di allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento, affinché possa essere riconosciuta la tutela predisposta dall’ordinamento, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un giustificato motivo di recesso.
L’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, non sussistendo nell’accertamento giudiziale.
Pertanto, a che resti escluso il carattere determinante del motivo illecito ex art. 1345 c.c. – prosegue la Corte – non è sufficiente che il datore di lavoro alleghi l’esistenza d’un giustificato motivo oggettivo, ma è necessario che quest’ultimo risulti comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito parimenti emerso all’esito di causa
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso e cassato la sentenza della Corte territoriale.