
Il licenziamento e le altre sanzioni disciplinari
Negli ultimi anni si è registrato un aumento esponenziale delle controversie di lavoro causate dell’abuso o dell’uso improprio della rete. La casistica è ampia e variegata: si parte dalle offese rivolte più o meno direttamente alla parte datoriale (o all’amministratore della società), passando dall’espressioni diffamatorie indirizzate alla propria azienda, sino all’uso eccessivo dei social network durante l’orario di lavoro.
La norma violata nei casi sopraelencati è quella prevista dall’articolo 2119 c.c., il quale stabilisce espressamente che: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
A tal proposito, è bene ricordare che un licenziamento può essere considerato legittimo quando il comportamento adottato dal lavoratore sia connotato da una gravità talmente elevata da compromettere irreversibilmente la fiducia del proprio datore e, dunque, impedire in maniera definitiva – e non soltanto in via provvisoria – la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Insomma, il provvedimento disciplinare sarà tanto più afflittivo quanto più grave è la condotta materialmente tenuta dal dipendente: le sanzioni irrogabili sono quelle previste dai contratti collettivi di lavoro, le quali possono essere divise in due macro categorie: le sanzioni conservative e il licenziamento, quale unica sanzione espulsiva.
Le altre sanzioni conservative sono:
- il rimprovero verbale (adottato per gli illeciti disciplinari più lievi);
- l’ammonizione scritta (o biasimo);
- la multa;
- la sospensione dalla retribuzione e dal servizio;
- il trasferimento.
Tuttavia, prima che il datore possa procedere alla comminazione della sanzione disciplinare è tenuto comunicare al dipendente, entro un breve termine e per iscritto, i fatti addebitati. In mancanza di tale contestazione scritta l’eventuale sanzione sarà considerata nulla (a meno che non si tratti di un mero rimprovero).
Ricevuta la lettera di contestazione dell’illecito disciplinare, il dipendente avrà a disposizione un brevissimo lasso di tempo (5 giorni) per approntare le proprie difese e chiedere, eventualmente, di essere ascoltato personalmente. In quest’ultimo caso, l’azienda sarà obbligata a procedere all’audizione.
Solo all’esito dell’eventuale ascolto, il datore di lavoro sarà libero di infliggere la sanzione disciplinare ritenuta più adatta.
La giurisprudenza della Suprema Corte sulla legittimità del licenziamento causato dall’uso scorretto dei social network.
In diverse occasioni, la Cassazione si è pronunciata sulla questione della legittimità dei licenziamenti irrogati a causa dell’uso scorretto di internet e dei social.
Nel 2012, con la sentenza n. 15654, i giudici di legittimità hanno espresso il principio secondo cui “ai fini della valutazione della legittimità di un licenziamento viene in considerazione ogni comportamento, quand’anche compiuto al di fuori della prestazione lavorativa, che per la sua gravità sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere la prosecuzione del rapporto pregiudizievole per gli scopi aziendali”.
Ed ancora, con la sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018gli Ermellini hanno stabilito che “le critiche offensive del lavoratore postate sulla propria bacheca Facebook creano un grave danno all’immagine aziendale ed hanno natura diffamatoria tale da giustificarne il licenziamento”. Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine da un licenziamento intimato a una lavoratrice a causa di pesanti affermazioni dalla stessa pubblicate sul suo profilo personale Facebook, con le quali diffamava l’azienda e il suo datore di lavoro, senza tuttavia esplicitare il nome di quest’ultimo.
Secondo la Suprema Corte, la diffusione di un messaggio denigratorio tramite l’uso di un social network integra un’ipotesi di diffamazione, poiché le espressioni diffamatorie veicolate tramite tale canale sono in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone.
Sennonché, occorre al riguardo evidenziare come l’orientamento della Cassazione non è del tutto unanime; ed invero, con la sentenza 31 maggio 2017, n. 13799, la Suprema Corte ha disposto che “È illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente che critica l’azienda sulla propria pagina Facebook”.
La vicenda posta al vaglio dei giudici di legittimità muoveva da un post che la parte datoriale considerava “oggettivamente diffamatorio, sia nei confronti della stessa società che nei confronti della legale rappresentante”, mentre la Corte, richiamando il disposto di cui all’art. 18, così come modificato dalla Legge Fornero, ha ritenuto che il post in questione rientrasse nell’ipotesi del fatto esistente ma non illecito.
È agevole comprendere, dunque, come spesso i problemi riguardino il tenore (offensivo o diffamatorio) dei messaggi pubblicati dai dipendenti sulla bacheca dei profili personali o nei gruppi creati all’interno degli stessi social; tuttavia, esistono altre ipotesi nelle quali ciò che assume rilevanza è il lasso di tempo che il dipendente trascorre sui social network durante l’orario di lavoro: a parere della Cassazione, anche questi particolari casi possono rappresentare una giusta causa di licenziamento.
A tal proposito, giova evidenziare una pronuncia resa dal 2015, con cui la Cassazione dichiarava legittimo un licenziamento. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte scaturiva da un account falso creato dal datore di lavoro, poiché questi sospettava che uno dei suoi dipendenti trascurasse le proprie mansioni per trascorrere del tempo su Facebook.
Nello specifico, il dipendente abboccava l’amo lanciato dal suo capo e iniziava a inoltrare messaggi al nuovo contatto, anche durante l’orario di lavoro. A fronte di tale condotta, il datore intimava il licenziamento per giusta causa, il quale veniva puntualmente impugnato dal lavoratore, sull’assunto che i controlli occulti posti in essere dal datore di lavoro fossero illegittimi e lesivi della sua privacy.
La Corte di Cassazione ha, però, confermato la validità della sanzione disciplinare espulsiva, ritenendo legittimi i controlli occulti nel caso in cui gli stessi mirano a tutelare i beni del patrimonio aziendale. In particolare, secondo la Suprema Corte, questi interessi economici prevalgono sul diritto del lavoratore alla riservatezza e non costituiscono una violazione della sua dignità personale e lavorativa, ove effettuati in maniera non eccessivamente invasiva e nel rispetto delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti.
Concludiamo la nostra rassegna giurisprudenziale, con la recente sentenza n. 3133 dell’1/02/2019, con cui la Cassazione ha statuito che è legittimo il licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro che, a seguito dell’analisi della cronologia del pc di un proprio dipendente, scopra che questi, durante l’orario di lavoro, abbia effettuato circa 6000 accessi nell’arco di 18 mesi, di cui circa 4500 su Facebook, costituendo detto comportamento una violazione degli obblighi di diligenza e di buona fede nell’espletamento della prestazione da parte del lavoratore.