
Riequilibrare il sistema e l’iniquità tra generazioni. Spesso, quando si parla del rischio default del sistema previdenziale italiano, l’argomentazione che più facilmente e con più frequenza viene chiamata in causa è quella delle c.d. “baby pensioni”, cioè di quegli assegni particolarmente generosi concessi grazie al sistema retributivo in generale e ai requisiti permissivi previsti col Dpr 1902 negli anni ‘70 .
Un sistema quello retributivo strutturato su meccanismi di calcolo che, per loro stessa natura, in un certo senso minano la capacità di “far quadrare i conti” e di mantenere un bilancio sano, mettendo così a rischio la stabilità finanziaria dell’ente previdenziale erogatore. Se infatti col contributivo la pensione corrisposta al momento del ritiro dal lavoro è “coperta” dai contributi versati nel corso della propria carriera, determinare l’importo dell’assegno tenendo conto dell’ultima retribuzione mediamente percepita (come appunto nel retributivo) comporta il venir meno di detta copertura.
L’assenza di un metodo di computo come il contributivo puro (dove l’ammontare della pensione dipende esclusivamente da quanto versato), l’irresponsabile concessione di pensionamenti anticipati – soprattutto ai dipendenti pubblici – con requisiti anagrafici e contributivi irrisori, e una certa dose di spreco insensato delle risorse, sono dunque i fattori principali che hanno portato i baby pensionati ad incidere negativamente sui livelli di spesa dello Stato in ambito previdenziale.
Basti pensare che, secondo i dati recentemente elaborati da Confartigianato, negli ultimi 40 anni la presenza di queste generose pensioni ha generato un costo aggiuntivo di circa 150 miliardi di euro in più rispetto a quanto sarebbe costata la previdenza senza le medesime. Un onere di quasi 6.630 euro per ciascun attuale lavoratore. E sempre per farsi un’idea sull’entità del fenomeno (con una media di 41 anni di pensione goduta), confrontando i dati INPS e INPDAP al 2011, sono circa 531.000 le pensioni corrisposte a chi si è ritirato con meno di 50 anni, per una spesa totale di 9 miliardi e mezzo l’anno; di esse, 425.000 sono erogate dall’INPDAP, di cui quasi 17.000 riguardano persone che sono andate in pensione a 35 anni d’età. Alla luce quindi di tale irragionevole “regalo”, spesso si è parlato di totale iniquità rispetto alle generazioni successive, costrette a fare i conti con carriere instabili e pensioni dipendenti unicamente dai versamenti contributivi effettuati. In questo senso, da diverse parti si è proposta l’introduzione di contributi di solidarietà maggiori a carico dei baby pensionati, affinchè ripaghino in parte il privilegio loro concesso. Ma c’è anche chi propone un metodo di correzione di detti importi in base all’età di pensionamento, reinserendo quel principio di flessibilità perso nel susseguirsi delle varie riforme. In un recente articolo pubblicato da Linkiesta.it, infatti, si parla dei c.d. “pivot”, cioè dei valori di riferimento di quelle che sarebbero l’età e l’anzianità contributiva “giuste” per il pensionamento.
Tenendo cioè conto dell’aspettativa di vita dal 1975 al 2010 e poi dal 2013 al 2020, sono stati elaborati i requisiti ideali di ritiro; così se nel 1975 l’età pivot era pari a 61,62 anni e l’anzianità a 37 anni di contributi, dal 2010 in poi esse sono rispettivamente di 65 e 40 anni. Se tali valori base vengono dunque tenuti fermi, le pensioni possono essere “corrette” a seconda della distanza dal pivot, con conseguenti penalizzazioni se ci si vuole ritirate prima. Più specificamente, gli assegni attualmente erogati col sistema retributivo ( e con la quota retributiva nel sistema misto) potrebbero in questo modo essere rimodulati in base all’età o all’anzianità di pensionamento. Facciamo l’esempio di un lavoratore ritiratosi nel 1990 a 55 anni d’età e 30 di contributi col sistema retributivo. Nel 1990 la vita attesa a 55 anni era di 22,49 anni e l’età pivot era di 62,7 anni con un aspettativa di vita di 16,87 anni; discostandosi dall’età ideale e dunque aumentando gli anni di ipotetico godimento della pensione, lo stesso importo dell’assegno deve essere adeguatamente ridotto perché la “ricchezza pensionistica” versata dal lavoratore in questione deve essere spalmata su più anni di erogazione.
In poche parole, occorre eguagliare il valore attuale che avrebbe la pensione calcolata sulla vita attesa a 55 anni con il valore attuale della stessa pensione calcolato su un numero di anni pari alla vita attesa all’età pivot. Applicando un tasso di sconto dell’1,5% (legato alla crescita del PIL e quindi da modificare periodicamente), emerge che il predetto lavoratore avrebbe dovuto godere di una pensione più bassa di circa il 24%, poiché ha beneficiato di 7 anni in più di pensionamento rispetto alla soglia pivot. Il rendimento implicito di una “baby pensione” appare dunque elevatissimo rispetto a quello a cui accederanno gli attuali giovani, ma essendo impensabile una restituzione dell’extra ricevuto, occorrono strumenti alternativi che riportino in equilibrio l’intero sistema.